di Marco Maglio
"Ti dico un segreto: i servizi del web si pagano con i dati!" |
Mark Zuckerberg deve essere abituato a
dire ciò che pensa senza tentennamenti, esponendolo a voce alta. Ha
creato, dal nulla, un impero, fatto di dati personali e fondato sulle
vite degli altri. Per realizzare un risultato così importante ci vuole
genio, prontezza, determinazione e non bisogna guardare in faccia a
nessuno, andando dritti verso la meta.
Bisogna essere spregiudicati.
Ha
sviluppato Facebook, ha comprato Whattsapp, Instagram e condiziona oggi
le nostre vite: attraverso le sue piattaforme viaggiano non solo i
nostri affari economici, ma anche quelli di cuore, i sentimenti, le
passioni, il tempo libero, l’esistenza stessa delle persone.
Il
suo regno è vasto, genera fatturati paragonabili al PIL di qualche
paese nel mondo, conta almeno un paio di miliardi di utenti, sottoposti
come sudditi alle regole che lui detta con il suo team stabilendo
funzionalità e applicazioni delle sue piattaforme di condivisione,
condizionando così le nostre vite. E come Carlo V anche lui potrebbe
dire “Sul mio regno non tramonta mai il sole”. Forbes gli attribuisce nel 2018 un patrimonio personale di 72,4 miliardi di dollari. Ha trentatre anni.
Uno così di solito decide, ordina, fa. E non usa toni sommessi.
Questa
volta, invece, Mark ha sussurrato. L’ho osservato con attenzione
mentre, in due tornate, prima davanti alla Commissione congiunta
Giustizia e Commercio del Senato e poi a quella della Camera dei
rappresentanti degli Stati Uniti, rispondeva, senza flettersi, alle
domande sul Datagate di Cambridge Analityca. Non erano interrogatori.
Erano più che altro richieste, per la verità poco incalzanti, che i vari
rappresentanti del popolo gli rivolgevano per capire come Facebook
tratta dati, se sia vero che li vende senza rispettare le persone cui
appartengono. Chi poneva le domande evidentemente parlava di una realtà
che non conosce e questo ha facilitato il compito di chi doveva
rispondere. Avrebbe potuto anche seguire altre strade e limitarsi a
fornire risposte interlocutorie e poco impegnative. Oppure alzare la
voce e sostenere che non è colpa sua, alla fine, se la gente ama
raccontarsi, mettersi in mostra e farsi i fatti degli altri.
Invece Mark ha preferito prendere posizione, con toni sommessi e controllatissimi.
"Mi dispiace". Con queste parole ha scandito le sue scuse, ammettendo: "La mia responsabilità è creare strumenti ma anche che questi strumenti siano utilizzati per il bene". Colpiscono
i modi con i quali queste frasi sono state pronunciate in un ambito
solenne. Il tono era normale ma nel contesto istituzionale, tutto
sembrava attutito, come se si stesse parlando sottovoce. L'atteggiamento
era quello di un bimbo, uno di quelli svegli: colto in flagrante,
mantiene la calma e, senza strillare, cerca di raccontare cosa è
successo : “Sì, vendiamo i dati” ha proseguito Mark e da lì è
stato un susseguirsi di dichiarazioni, tra sorrisi di plastica,
controllo corporeo, assenza apparente di emozioni, descrivendo in modo
rassicurante una situazione che avrebbe bisogno di una accurata
revisione: "Riusciremo a risolvere i problemi di Facebook, ma ci vorranno un po' di anni ”.
Zuckerberg ha poi detto cose molto utili per capire come stanno davvero
le cose. Segnalo in particolare il passaggio in cui, sempre a voce
bassa e con la lievità di un sussurro, il fondatore di Facebook ha
dichiarato "Ci sarà sempre una versione gratuita", ammettendo
implicitamente che per chi vuole maggiori tutele esisterà un servizio a
pagamento, che farebbe affidamento su abbonamenti invece che sulla
pubblicità. A conferma del fatto che i dati valgono ed è attraverso
questi che fino ad ora si è pagato il conto dei servizi che Facebook
offre ai suoi clienti.
E’ stato un sussurro finale, passato quasi inosservato, ma “il sugo della storia”,
a ben vedere, è tutto racchiuso in questa frase. La chiave è la
gratuità (apparente) dei servizi on line. I nostri dati sono ormai una
merce di scambio che usiamo per pagare servizi, indispensabili che ci
vengono offerti senza chiederci denaro per fruirne. La verità è che
usiamo i nostri dati personali come fossimo bambini, che hanno tra le
mani un borsellino pieno di monete preziose: le usiamo
inconsapevolmente, dandole a chiunque ce le chieda, ottenendo in cambio
…. caramelle!
Mi
viene in mente la storia di Pinocchio, degli zecchini d’oro, del Campo
dei miracoli. Ve la ricordate, vero? Pinocchio, nella speranza di
moltiplicarli, sotterrò gli zecchini d’oro seguendo i consigli del Gatto
e della Volpe. Sappiamo tutti come è andata a finire. Alla fine nella
storia di Collodi, Pinocchio capisce sulla propria pelle che la fiducia è
una cosa seria e che niente è gratis, tutto si paga. Vale oggi anche
per i nostri dati, che sono la moneta dell’Economia del presente e del
futuro.
La morale della storia, e dei sussurri di Mark, alla fine è proprio questa.