sabato 14 aprile 2018

Il sussurro di Mark (Zuckerberg): il Gatto, la Volpe e i dati personali

di Marco Maglio

"Ti dico un segreto: i servizi del web si pagano con i dati!"
Mark Zuckerberg deve essere abituato a dire ciò che pensa senza tentennamenti, esponendolo a voce alta. Ha creato, dal nulla, un impero, fatto di dati personali e fondato sulle vite degli altri. Per realizzare un risultato così importante ci vuole genio, prontezza, determinazione e non bisogna guardare in faccia a nessuno, andando dritti verso la meta. 

Bisogna essere spregiudicati.

Ha sviluppato Facebook, ha comprato Whattsapp, Instagram e condiziona oggi le nostre vite: attraverso le sue piattaforme viaggiano non solo i nostri affari economici, ma anche quelli di cuore, i sentimenti, le passioni, il tempo libero, l’esistenza stessa delle persone.
Il suo regno è vasto, genera fatturati paragonabili al PIL di qualche paese nel mondo, conta almeno un paio di miliardi di utenti, sottoposti come sudditi alle regole che lui detta con il suo team stabilendo funzionalità e applicazioni delle sue piattaforme di condivisione, condizionando così le nostre vite. E come Carlo V anche lui potrebbe dire “Sul mio regno non tramonta mai il sole”. Forbes gli attribuisce nel 2018 un patrimonio personale di 72,4 miliardi di dollari. Ha trentatre anni.

Uno così di solito decide, ordina, fa. E non usa toni sommessi.

Questa volta, invece, Mark ha sussurrato. L’ho osservato con attenzione mentre, in due tornate, prima davanti alla Commissione congiunta Giustizia e Commercio del Senato e poi a quella della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, rispondeva, senza flettersi, alle domande sul Datagate di Cambridge Analityca. Non erano interrogatori. Erano più che altro richieste, per la verità poco incalzanti, che i vari rappresentanti del popolo gli rivolgevano per capire come Facebook tratta dati, se sia vero che li vende senza rispettare le persone cui appartengono. Chi poneva le domande evidentemente parlava di una realtà che non conosce e questo ha facilitato il compito di chi doveva rispondere. Avrebbe potuto anche seguire altre strade e limitarsi a fornire risposte interlocutorie e poco impegnative. Oppure alzare la voce e sostenere che non è colpa sua, alla fine, se la gente ama raccontarsi, mettersi in mostra e farsi i fatti degli altri.

Invece Mark ha preferito prendere posizione, con toni sommessi e controllatissimi.

"Mi dispiace". Con queste parole ha scandito le sue scuse, ammettendo: "La mia responsabilità è creare strumenti ma anche che questi strumenti siano utilizzati per il bene". Colpiscono i modi con i quali queste frasi sono state pronunciate in un ambito solenne. Il tono era normale ma nel contesto istituzionale, tutto sembrava attutito, come se si stesse parlando sottovoce. L'atteggiamento era quello di un bimbo, uno di quelli svegli: colto in flagrante, mantiene la calma e, senza strillare, cerca di raccontare cosa è successo : “Sì, vendiamo i dati” ha proseguito Mark e da lì è stato un susseguirsi di dichiarazioni, tra sorrisi di plastica, controllo corporeo, assenza apparente di emozioni, descrivendo in modo rassicurante una situazione che avrebbe bisogno di una accurata revisione: "Riusciremo a risolvere i problemi di Facebook, ma ci vorranno un po' di anni ”. Zuckerberg ha poi detto cose molto utili per capire come stanno davvero le cose. Segnalo in particolare il passaggio in cui, sempre a voce bassa e con la lievità di un sussurro, il fondatore di Facebook ha dichiarato "Ci sarà sempre una versione gratuita", ammettendo implicitamente che per chi vuole maggiori tutele esisterà un servizio a pagamento, che farebbe affidamento su abbonamenti invece che sulla pubblicità.  A conferma del fatto che i dati valgono ed è attraverso questi che fino ad ora si è pagato il conto dei servizi che Facebook offre ai suoi clienti.

E’ stato un sussurro finale, passato quasi inosservato, ma “il sugo della storia”, a ben vedere, è tutto racchiuso in questa frase. La chiave è la gratuità (apparente) dei servizi on line. I nostri dati sono ormai una merce di scambio che usiamo per pagare servizi, indispensabili che ci vengono offerti senza chiederci denaro per fruirne. La verità è che usiamo i nostri dati personali come fossimo bambini, che hanno tra le mani un borsellino pieno di monete preziose: le usiamo inconsapevolmente, dandole a chiunque ce le chieda, ottenendo in cambio …. caramelle!

Mi viene in mente la storia di Pinocchio, degli zecchini d’oro, del Campo dei miracoli. Ve la ricordate, vero? Pinocchio, nella speranza di moltiplicarli, sotterrò gli zecchini d’oro seguendo i consigli del Gatto e della Volpe. Sappiamo tutti come è andata a finire. Alla fine nella storia di Collodi, Pinocchio capisce sulla propria pelle che la fiducia è una cosa seria e che niente è gratis, tutto si paga. Vale oggi anche per i nostri dati, che sono la moneta dell’Economia del presente e del futuro. 

La morale della storia, e dei sussurri di Mark, alla fine è proprio questa.
































lunedì 26 marzo 2018

"Che ci faccio qui?" Facebook e l'urlo di (Elon) Musk


di Marco Maglio

I fatti sono noti. Lo scorso 18 marzo due inchieste parallele del Guardian e del New York Times hanno messo Facebook in grande difficoltà: Cambridge Analytica, società di consulenza britannica, avrebbe utilizzato in maniera illecita i dati di oltre 50 milioni di elettori americani profilandone psicologia e comportamento in base al monitoraggio delle loro attività su Facebook. Il sospetto è che Cambridge Analytica abbia influenzato le intenzioni di voto di milioni di persone grazie all'uso sapiente di dati personali acquisiti illecitamente, all'insaputa degli elettori stessi.

Uno scandalo che riguarda l’uso di dati personali, quindi è stato immediato nel linguaggio giornalistico definirlo un Datagate: il giorno della diffusione della notizia il valore delle azioni di Facebook è diminuito del 6,8% e che a Mark Zuckerberg è costata oltre 9 miliardi di dollari del suo patrimonio personale. Le dimensioni sono queste, perché i dati valgono sempre di più, sia quando li trattiamo bene, sia quando li maltrattiamo.

Elon Musk fondatore di SpaceX e Tesla
E già questo basterebbe. Ma i guai non vengono mai da soli. Così qualche giorno dopo il diffondersi del Datagate, Elon Musk, il fondatore di Space X e Tesla ha fatto una cosa che, dal mio punto di vista di osservatore appassionato delle questioni di data protection, considero molto interessante. "Cos’è Facebook?" ha chiesto Musk ironicamente rispondendo a Brian Acton, il co-fondatore di Whatsapp che a sua volta aveva scritto su Twitter: "È il momento di cancellare Facebook", per poi procedere effettivamente con l'eliminazione del suo profilo.

Me lo immagino, Musk davanti allo schermo del suo pc. Guardare le pagine social del suo impero e chiedersi scettico: “Che cos’è Facebook e soprattutto che ci faccio, qui?. Che bisogno ho di utilizzare questo strumento che può essere fonte di usi impropri a danno di tante persone?”

Detto, fatto: dopo qualche minuto le due pagine Facebook di Space X e Tesla da 2,5 milioni circa di fan l'una non c'erano più. Cinque milioni di fan, clienti e prospect dissolti nel tempo di un click.

Questo click di Musk mi sembra possa essere considerato l’inizio di una nuova era e in ogni caso segni la fine dell’eta dell’innocenza che abbiamo vissuto fino ad ora condividendo con disinvoltura i fatti più intimi della nostra vita.

In realtà i dati che noi generiamo usando i servizi on line sono stati sempre in vendita, in tutto il mondo. Oggi con la scelta di cancellare quelle pagine e di rinunciare al potenziale commerciale che è nascosto dietro alle connessioni social è diventato chiaro a tutti che è essenziale rispondere alla domanda “Cosa ci faccio qui?” quando visitiamo un sito, quando usiamo una piattaforma social per scambiare informazioni, quando viviamo on line, come ci succede sempre più spesso.

E’ una domanda semplice alla quale dovremmo rispondere in modo diretto, cercando di tenere presente che i dati che decidiamo di condividere utilizzando i social o le app escono dal nostro controllo e le leggi di data protection ci tutelano in modo imperfetto. E’ pur vero che con il Regolamento Europeo sui dati personali la protezione aumenta imponendo a chi raccoglie i dati di condurre un’analisi preventiva dei rischi e di adottare i criteri della privacy by design e della privacy by default. La soglia di tutela per ognuno di noi aumenta e diminuiscono le ipotesi di uso improprio dei dati.

Ma sono rimedi comunque imperfetti, perché la vera protezione consiste nel non mettere i propri dati nella disponibilità di chi li può usare per fini diversi da quelli per i quali li abbiamo condivisi.

Così le domande di Musk, quel suo chiedersi “Cos’è Facebook?” “Che ci faccio qui?” diventano essenziali per recuperare consapevolezza e difendere davvero i dati personali.

Ricordo che tanti anni fa, erano gli anni ‘70, in un’altra epoca totalmente off line, nel primo film di Nanni Moretti, un’altra domanda esistenziale risuonava sullo schermo. Se la poneva un personaggio che era incerto se andare o meno ad una festa: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”.

Anche oggi, nell’era dei social, è arrivato il momento di chiedersi se ha senso essere perennemente on line, connessi, pronti a condividere tutto.

Direi che il click con il quale Musk ha cancellato i suoi cinque milioni di contatti ha la determinazione di un urlo con il quale si risponde alla domanda “che ci faccio qui?” quando siamo on line. La risposta, nella maggior parte dei casi potrebbe essere: “Niente. Non ci fai niente e non vale sempre la pena essere sempre on line, soprattutto quando i nostri dati sono messi in discussione.”
L'urlo di Munk
L'urlo di Munch
Così questo grido mi ricorda, per certi versi, un altro urlo celebre, quello di Munch, con il dipinto vuole rappresentare la condizione esistenziale dell’uomo moderno, afflitto dalla solitudine, dall’incomunicabilità, dall’angoscia. Ci sarebbe da chiedersi se dietro la folla che si ammassa nei social non si nascondano queste stesse inquietudini.

Forse la paura di perdere i nostri dati personali ci potrà restituire maggior equilibrio

E in ogni caso, mentre ci troviamo on line, ci potrà permettere quanto meno di porci la domanda “Che ci faccio qui?”. E già qualcosa. Un primo cenno di consapevolezza lungo la strada della protezione dei nostri dati e delle nostre vite.