sabato 16 febbraio 2008

Il Gadget, la cena di gala e la potenza del marketing


Pubblichiamo un articolo di Marco Maglio
Presidente del Giurì per l'Autodisciplina







Quando si effettuano azioni di marketing bisogna stare attenti ai destinatari dell’iniziativa.

Non tutte le persone sono uguali e non sempre quello che è efficace per alcuni lo è per altri.

Ho pensato questo dopo aver vissuto un’esperienza paradossale che mi ha confermato, se ce ne fosse stato bisogno, che le leggi sono uguali per tutti, ma sono le persone che sono diverse tra loro.

Vi racconto il fatto. Qualche giorno fa si è svolta l’inaugurazione dell’anno giudiziario e, da bravo avvocato, ho partecipato alla cena di Gala organizzata dal mio ordine professionale, alla presenza dei vertici della magistratura e delle delegazioni straniere. Insomma la Legge era la grande protagonista della serata. Insieme, devo dire, ad alcuni sponsor che, nella splendida cornice che ci ospitava, offrivano, attraverso graziose hostess, gadget vari ed oggettistica di pregio.

Tutto normale, direte voi. Mica tanto, rispondo io. Perché l’offerta del gadget (mica male tra l’altro, un orologio) era preceduta dalla consegna di una scheda informativa con la richiesta di dati personali (tra cui il numero di cellulare, indicato come dato obbligatorio da fornire). I dati servivano ad una nobile causa: partecipare all’estrazione di un favoloso telefonino di ultima generazione, noto soprattutto per la sua versatilità nella gestione della posta elettronica. Mi ha fatto impressione vedere come i partecipanti alla cena, presumibilmente tutti conoscitori dei diritti dei consumatori data la loro estrazione professionale, abbiano affollato lo stand che distribuiva il gadget e senza battere ciglio abbiano compilato tranquillamente il modulo. Tutto è filato liscio. Nessuno ha contestato nulla, anche se l’attesa per il ritiro del gadget era lunga e snervante. Ne sono stato felice. Occupandomi di data protection, temevo che scoppiasse qualche caso legato alla raccolta dei dati personali. Ma se nessuno dei miei colleghi aveva mosso ciglio, potevo stare tranquillo.

Non amando gli assembramenti, ho aspettato che la folla sciamasse e a fine serata mi sono avvicinato al mitico luogo degli sponsor (indubbiamente il tavolo più affollato della serata). Arrivato il mio turno, ho chiesto alla hostess il modulo per il ritiro del gadget.

Ho letto l’informativa relativa al trattamento dei dati. Devo dire ben scritta, lunga, completa, con tutte le sue cosine a posto, come direbbe un mio amico: nome del titolare del trattamento, finalità della raccolta, ambito di comunicazione e diffusione, natura facoltativa della raccolta, modalità di esercizio dei diritti di cancellazione. Non avevo dubbi d’altra parte. Se nessuno dei miei colleghi si era lamentato, evidentemente l’informativa era fatta a regola d’arte.

Nell’informativa si precisava che se la persona voleva, poteva consentire il trattamento dei dati per ricevere messaggi commerciali. Correttamente erano previsti due spazi per apporre la propria firma: uno per esprimere il proprio consenso a tale utilizzo, l’altro per negarlo. Ho notato che lo spazio per esprimere il consenso era sottolineato ed evidenziato con una croce, ma, liberamente, come prevede la legge, ho deciso di negare il consenso. Insomma ho pensato: grazie per il gadget, caro Sponsor, ma non disturbarmi con i tuoi messaggi. Ti dovrai accontentare del fatto che ogni volta che guarderò l’orologio, leggendo il tuo nome sul quadrante, mi ricorderò di te. Anche questo è marketing.

E a questo punto inizia il bello: la hostess, evidentemente inconsapevole di tutto (forse perfino di se stessa), prima mi squadra indispettita; poi, serafica (perché anche le hostess hanno una loro professionalità), mi comunica che così non va bene: se non do il consenso non mi può dare il gadget perché “se lei non ci permette di usare i dati non ha senso chiederglieli. Guardi che nessuno si è lamentato e abbiamo raccolto 1200 schede questa sera!”. In effetti ha ragione lei. Non ha senso e poi mica sarò io l’unico a conoscere questa legge tra 1200 persone! La serata sta finendo e devo decidere in fretta se valga la pena di farle una lezione accelerata sulla data protection, spiegandole che raccogliere i dati così è una nefandezza, che viola la legge e li rende inutilizzabili. Il consenso deve essere libero e non condizionato. Ho diritto di ricevere il gadget senza dover dare nessun consenso! La guardo e decido che è meglio cedere: a volte è bello ammettere la propria debolezza. Penso che non valga la pena opporsi a questa favolosa macchina da guerra creata per la raccolta dei dati personali del ceto forense. Sono stanco e vorrei andare a dormire. Mi faccio riconsegnare il modulo e docilmente firmo accanto alla formula con la quale consento al trattamento dei dati. La hostess è felice e con un sorriso mi consegna il tanto agognato gadget. “ Ha visto!”. Mi dice, soddisfatta.

Si’. Ho visto che le regole non sono state rispettate e che la sensibilità delle persone per il rispetto dei loro diritti varia in funzione del modo in cui vengono raccolti i loro dati. Ma soprattutto ho visto che i professionisti del diritto, a volte sono molto disattenti, assai più dei consumatori che infatti sarebbero insorti contro questa tecnica di raccolta dei dati. Ma mi resta un dubbio: tanta disattenzione sarà stata provocata dall’avvenenza della hostess o dal valore del gadget? Il mistero resta fitto. Ma in ogni caso, da uomo di legge, mi inchino di fronte alla potenza del marketing.

sabato 9 febbraio 2008

Attenti al marketing virale. E’ efficace ma….esistono regole da conoscere e da rispettare.

Attenti al marketing virale. E’ efficace ma….esistono regole da conoscere e da rispettare.

di Marco Maglio

Chi di voi non ha avuto la tentazione di diffondere in rete notizie positive su propri prodotti o servizi, confidando nella diffusione virale dei messaggi? In effetti la pratica è comune, costa poco e può essere molto efficace. Ma oggi richiede di adottare molte cautele legali per evitare di generare danni pesanti sia di immagine, sia per le sanzioni cui può portare. In effetti questo strumento di marketing può sembrare una prassi innocente, ma rischia di causare conseguenze gravi per chi la realizza.

All’estero gli hanno già trovato una definizione e lo chiamano “astrosurfing”. Cos’è? E’ la pratica di chi invia messaggi nei forum o pubblica blog, assumendo identità non corrispondenti al vero, per promuovere un prodotto o per raccontare la propria esperienza di acquisto, tessendo le lodi dei propri prodotti o servizi sotto mentite spoglie. E’ una componente specifica di quella categoria ampia di attività che si qualifica ormai da tempo come marketing virale, che è un concetto molto più esteso e che comprende molte altre attività.

Ma quello di cui voglio parlarvi oggi non è il marketing virale in genere ma una sua applicazione particolarissima. Non è una cosa nuova: la pratica di parlare bene di sé, affidandosi a compari e complici sparsi tra la folla dei consumatori, esiste da quando esiste il commercio. Ne parla, pensate un po’, addirittura il poeta latino Marziale in una delle sue composizioni, ambientate nei mercati dell’antica Roma. In tempi più recenti ho visto usare questo metodo dai venditori nei mercati e nelle fiere. Il “compare” si intrufola tra la folla dei curiosi, vicino allo stand in questione e, badando di alzare bene la voce per farsi sentire da tutti e di essere convincente, dice al venditore complice: “Mi sono trovato benissimo con il vostro prodotto. Erano settimane che lo cercavo ma è esaurito ovunque. Ora non voglio più rimanere senza. Me ne dia 12!”. L’effetto è assicurato.

Oggi, in tempi di internet, il metodo, solo adattato quanto basta, è stato utilizzato a piene mani da aziende ed operatori di marketing che mettono in rete notizie e commenti entusiastici su prodotti e inducono gli altri navigatori a fare analoghe scelte di consumo. Questo era più facile nei primi tempi eroici di internet. Da qualche tempo, ormai, con la diffusione di sistemi evoluti di social networking, il controllo sulle opinioni altrui è serrato e la valutazione sull’attendibilità di chi formula giudizi, dà consigli, e propone le sue esperienze, è giunta a livelli di analisi per così dire scientifici.

Ma, tutto sommato, ognuno è libero di esprimere giudizi e di far circolare le proprie idee. Finora almeno si è pensato così e il rischio maggiore che si poteva correre era quello di essere smascherati, rivelando al popolo della rete che il tal commento non era disinteressato ma nasceva da una precisa strategia di marketing. Sono successi casi clamorosi che negli anni scorsi hanno indotto alla massima prudenza gli autori di queste iniziative.

Ma oggi le cose sono cambiate radicalmente. Nel senso che un blog fasullo, nato per esaltare il proprio prodotto e per denigrare il concorrente non è solo una furbata a basso costo. Rischia di essere una prassi commerciale sleale, punita, ai sensi del recente Decreto Legislativo 146 del 2007, con sanzioni che possono arrivare, nei casi più gravi fino a 500.000 euro.

Questo induce ad una maggiore prudenza rispetto al passato e suggerisce di verificare con cura i contenuti e gli strumenti usati in una campagna promozionale. Gli strumenti alternativi, coma ad esempio i blog civetta, la partecipazione ai forum, l’invio di mail a catena, posso oggi essere punite dalla legge, se risulta che l’iniziativa non sia il frutto della libera espressione dell’opinione individuale ma rappresenti un elemento di una strategia di comunicazione commerciale.

Il tema è ampio e, a mio parere, si presta a molte considerazioni. Non solo sul ruolo sociale della comunicazione commerciale ma anche sulla libertà della rete e sul rispetto dell’autonomia individuale e dell’identità personale.

In un prossimo intervento racconterò alcuni casi specifici e mi piacerebbe aprire un dibattito per conoscere il punto di vista dei lettori su questo argomento. Secondo voi è giusto o sbagliato limitare la libertà di espressione delle imprese, impedendo l’utilizzo di strumenti di comunicazione che non permettono di conoscere l’identità dell’autore del messaggio? Quali conseguenze può portare questo primo divieto? Il dibattito è aperto.